umberto santino

                                             umberto santino 

   

 

 

 

 

 

 Umberto Santino

 Presidente del centro siciliano di documentazione Giuseppe Impastato

 

“La mafia ha vinto”, proclamava Tommaso Buscetta confessandosi al giornalista Saverio Lodato, in un libro del 1999; “La mafia non ha vinto” è il titolo di un libro dello storico Salvatore Lupo e del giurista Giovanni Fiandaca da qualche settimana in libreria.

Temo che affermazioni così nette non riescano a cogliere una realtà che è un po’ più complessa. Possiamo dire che la mafia, in particolare Cosa nostra, dopo le stragi del ’92 e del ’93, proprio per gli effetti boomerang di quelle stragi, ha ricevuto colpi durissimi, con gli arresti e le condanne di quasi tutti i capi riconosciuti e di moltissimi gregari, ma non è il caso di cantare vittoria. Se va criticata la retorica secondo cui la mafia è invincibile, è “più forte di prima”, penso che non sia conveniente introdurre un’altra retorica, secondo cui la mafia è “alle corde” o, come si diceva nel dicembre del 2000, nel corso della conferenza di Palermo delle Nazioni Unite, la convenzione sul crimine transnazionale stipulata in quell’occasione era “il cappio al collo di un agonizzante”. Se la mafia siciliana è in difficoltà, l’accumulazione illegale è in buona salute e gruppi di tipo mafioso proliferano a livello mondiale, per gli effetti criminogeni dei processi di globalizzazione. Quello che si registra, con particolare insistenza negli ultimi mesi, è il gioco al bersaglio nei confronti dei pm della Procura di Palermo impegnati nel processo alla trattativa Stato-mafia. Prima le minacce di Riina, a cui nei giorni scorsi è arrivata una lettera della famigerata e improbabile Falange armata, poi la relazione della Direzione nazionale antimafia, con critiche all’impostazione del processo, ora il libro a quattro mani di due studiosi di prestigio. In ogni caso un conto sono le minacce, un altro le riflessioni e le argomentazioni, a cui occorre rispondere entrando nel merito e non con gli anatemi.

Lupo ha alle spalle una fortunata Storia della mafia e altri testi a cui non ho risparmiato critiche (lo studio della “mafia in quanto tale”, cioè dell’organizzazione criminale, con scarsa attenzione per il sistema di rapporti entro cui agisce, e che a mio avviso costituisce la sua vera forza; i rapporti con la politica ridotti ad “alleanze tattiche”, episodiche, per segnalarne solo alcune). Ora, con una certa disinvoltura, parla di mafia come “soggetto politico” (p. 18), titolo di un mio saggio del 1992, ripubblicato nel 2013, e incorre in qualche svista (Caponnetto non era procuratore: p. 21, ma Consigliere istruttore; Rognoni si chiama Virginio non Vincenzo: p. 41), indice di una fretta di cui non vedo la necessità, ma fa un discorso condivisibile sulla portata storica del maxiprocesso, fortunatamente scampato alle forbici di Corrado Carnevale. Il problema è quello che è accaduto dopo, con il pool antimafia smantellato, proprio per il suo successo, e Falcone che ha dovuto lasciare Palermo. Sulla trattativa lo storico, dopo aver ricordato che non esiste un reato con quel nome, ricostruisce l’azione svolta dal generale Mori e le dichiarazioni di Massimo Ciancimino, osserva che nei primi anni Novanta non c’è stato nessun progetto di golpe (il successo di Berlusconi sarebbe dovuto alla volontà di liberarsi “dalla partitocrazia catto-comunista” e alla fiducia riposta nel grande imprenditore e comunicatore) e arriva alla conclusione che la mafia finora non ha vinto, anzi, almeno per ora, ha perso, con buona pace dei “catastrofisti”. Comunque il problema delle mafie in Italia è “tutt’altro che risolto e sul come affrontarlo il paese resta diviso” (p. 64). Divisioni che, a mio avviso, giocano a favore di una ripresa della mafia.

Fiandaca, con alla spalle una nutrita produzione sul fenomeno mafioso e molte iniziative di studio e riflessione, in alcune delle quali ci siamo trovati accanto, condividendo o meno le stesse idee, richiamando la sentenza dei giudici fiorentini del 1998, osserva che più che una “trattativa” ci sono stati rapporti che nel “vissuto” dei mafiosi erano interpretati come un negoziato, e che da quella sentenza non è scaturita una incriminazione degli ufficiali del Ros. Anche in Sicilia i magistrati di Caltanissetta e di Palermo hanno avuto giudizi diversi sulla credibilità del figlio di Ciancimino e la sentenza del luglio 2013 del Tribunale di Palermo ha scagionato Mori dall’accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano. Ci troviamo di fronte a una diversità di vedute all’interno della magistratura. Niente di scandaloso. Il giurista propende per una genesi “prevalentemente endo-mafiosa della strategia stragistica” (p. 84) e considera la letteratura corrente sugli intrecci mafia-massoneria-servizi segreti ben lontana dal rappresentare una verità acquisita e più somigliante a una rappresentazione romanzata. Si chiede Fiandaca: i negoziatori che assicuravano concessioni a Cosa nostra, per scongiurare altre stragi, sono equiparabili a delinquenti in combutta con la mafia? Il processo penale può lumeggiare vicende oscure e drammatiche della nostra storia recente? Ad avviso del giurista la trattativa a fin di bene è legittima e il ricorso allo “stato di necessità” da parte del potere esecutivo è giustificabile a condizione che si salvaguardi il “bene di rango prevalente” (p. 103). Il problema è proprio questo: le concessioni sono servite a evitare il peggio o hanno indotto i capimafia a pensare che altre stragi, dopo quella di Capaci, potevano garantire maggiori concessioni cioè ulteriori cedimenti? Su questi temi la discussione è aperta e ben venga un adeguato approfondimento. Con l’avvertenza che bisognerebbe evitare di prestarsi al gioco di testate interessate a colpire, sempre e comunque, la magistratura, con titoli come “Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca” (il Foglio del primo giugno 2013).

Temo che la richiesta di verità dell’instancabile Giovanna Maggiani Chelli, portavoce del Comitato dei familiari delle vittime della strage di Firenze e dei familiari delle vittime delle altre stragi, rimarrà delusa. Il processo di Palermo con ogni probabilità non si scosterà dallo schema del processo Andreotti: mezza condanna, per di più prescritta, e mezza assoluzione. Per avere la verità sulle responsabilità dei depistatori delle indagini sull’uccisione di Peppino Impastato, con in testa il procuratore capo del tempo, Gaetano Martorana, c’è voluta (a vent’anni dal delitto) la relazione della Commissione parlamentare antimafia, che finora resta un caso unico. Ma l’attuale Commissione antimafia saprà misurarsi con impegni di tale portata?

 

L`articolo è stato pubblicato da Repubblica Palermo il 10 aprile

 

 

 

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