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Per la Rotta dei Poeti, la storia del gruppo spontaneo di volontari, cresciuto “all’ombra” del Centro che, a Roma, ha aiutato migliaia di rifugiati in transito.

Sono le cinque del pomeriggio di un caldo e nuvoloso giorno d’inverno quando arrivo in Via Cupa, una piccola traversa a pochi passi dalla stazione Tiburtina a Roma. Mi assale un po’ di tristezza: al numero civico 5 sorge quel che rimane del Baobab, il centro policulturale che, a giugno dello scorso anno, ha accolto migliaia di rifugiati in transito.
Il Centro è stato sgomberato lo scorso 6 dicembre, dopo aver fatto fronte a un’emergenza che ha visto arrivare nella capitale molti migranti provenienti dal Corno d’Africa, in procinto di dirigersi verso il Nord Europa.
L’atmosfera immobile e senza vita, che mi circonda, viene spezzata magicamente dagli occhi ridenti di Francesca, chiusa nel suo piumino nero, ma con un aspetto colorato come i murales lasciati sui muri dagli ex abitanti del Baobab.
“Lo sgombero era già stato preannunciato e, dopo la perquisizione della polizia, a fine novembre, giustificata dalle c.d. misure anti-terrorismo, ce lo aspettavamo”, mi racconta Francesca, mostrandomi attraverso la fessura del cancello i resti di quella struttura fino a pochi mesi fa animata da voci, musica e attività.

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Ventinove anni, account in un’agenzia pubblicitaria, appassionata dei temi dell’immigrazione: è lei il volto di un coordinamento di volontari formatosi spontaneamente nel continuo via vai dell’estate scorsa.
“E’ stato facile compattarci – ci spiega – perché avevamo tutti lo stesso obiettivo: dare una mano e andare oltre il puro assistenzialismo”. Supportati da associazioni mediche e legali, attraverso le quali è stato possibile fornire alle persone, che arrivavano, un sostegno pratico e psicologico, i volontari hanno cercato di promuovere socialità e integrazione: “abbiamo chiesto loro di collaborare per tenere pulito il Centro e abbiamo organizzato laboratori per bambini, corsi di italiano e di tedesco, partite di calcetto e serate di ballo”.
Un gruppo di trenta persone, tra i 18 e i 60 anni, dalle professionalità più disparate, intorno al quale sono gravitati un numero inestimabile di donatori, più di mille volontari e innumerevoli cittadini. “E’ indescrivibile – dice Francesca – quello che è successo in quei giorni. Era un continuo di persone, che portavano cibo e vestiario e offrivano il loro aiuto”.
L’adrenalina che quei racconti scatenano in Francesca è ancora tangibile. 
Ora in via Cupa c’è solo silenzio. Un silenzio quasi irreale, smorzato in lontananza dalle auto che percorrono la via Tiburtina.
Eppure i volontari sono ancora qui, accanto alle porte chiuse del Baobab, con una scenografia desolante: due gazebo, sedie rimediate e un camper prestato da Medu (Medici per i diritti umani). Tutti i giorni, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19, svolgono la funzione di info point di prima accoglienza per gli immigrati che continuano a transitare. Danno loro un sostegno fino all’arrivo degli operatori della Sala operativa sociale del Comune, nel tardo pomeriggio, che individuano le strutture d’accoglienza per la notte.

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Francesca ha appena fatto “accomodare” sotto i gazebo tre afgani, uno di loro ha 62 anni. Colgo un’evidente emozione nei suoi occhi ridenti, che per un momento si velano di tristezza. E’ l’effetto che le fa – mi spiega – leggere nei visi dei più anziani il dolore della perdita delle radici.
Questa giovane ragazza che incontro fuori da un camper di sabato pomeriggio mi ridona un filo di speranza. Perché sta qui invece di farsi un giro di shopping?
Le provoca sconforto pensare che un ragazzo eritreo, giovane, come lei, possa ritrovarsi solo in questa grande città e trascorrere al freddo la notte.
Ecco cosa spinge Francesca a non mollare. Un obiettivo che la accomuna a tanti suoi compagni e compagne: Valentina, Andrea, Roberto, Giulia, Loredana, Sonia, Anna…
Semplici cittadini, incontratisi in una straordinaria sera di estate, che hanno iniziato a scrivere una storia. Baobab Experience, così chiameranno la loro associazione prossima alla nascita. Principale proposito quello di ottenere dalle stesse istituzioni, della quali si sono ritrovati a sopperire le mancanze, una nuova struttura dove poter accogliere gli immigrati che arriveranno nei prossimi mesi.
Una struttura che assomiglierà di certo a un baobab, un albero robusto, dal grande tronco, in grado di rappresentare una casa per tutti.

Mimma Scigliano

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