umberto santino

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Il commento di Umberto Santino, presidente del Centro Impastato, sulla richiesta della procura di Palermo di archiviare per prescrizione l’inchiesta sul depistaggio per il delitto di Peppino e sul principale problema della giustizia italiana:l’eterna durata dei processi

Gli squallidi personaggi che, atteggiandosi a mafiosi e padroni del territorio, aggrediscono ed estorcono gli immigrati che gestiscono attività commerciali in via Maqueda (un giovane gambiano è miracolosamente sopravvissuto a un colpo di pistola alla testa) sono stati arrestati su denuncia dei commercianti bengalesi, ma dopo qualche giorno alcuni di essi sono stati scarcerati. I bengalesi non possono non chiedersi se le cose nel quartiere andranno come prima, ma pare che siano determinati a vivere la loro vita e a fare il loro lavoro, resistendo alle persecuzioni dei malacarne di rione.

A Ostia i magistrati escludono che ci sia la mafia, anche se il consiglio municipale è stato sciolto per infiltrazioni mafiose. Non si sa che esito avrà il processo per Mafia capitale: si deciderà che si tratta di associazione di tipo mafioso, secondo l’art. 416 bis del codice penale, o di associazione a delinquere semplice o di criminalità politico-amministrativa, in base alla convinzione che si possa parlare di mafia soltanto nelle zone dove il fenomeno si è originato, sedimentando aspetti specifici, inesportabili e irripetibili?

Il dibattito suscitato dall’inchiesta romana è il seguito di un confronto che si è innescato dopo una serie di processi in Lombardia e in altre regioni in cui si è escluso che si trattasse di ’ndrangheta, anche se le azioni che avevano portato alle incriminazioni avevano il marchio della mafia calabrese in giro per la penisola. La dipendenza delle ’ndrine formatesi in regioni del Centro e del Nord dalle case madri poteva far pensare che l’input venisse dai paesini di poche migliaia di abitanti, arroccati sull’Aspromonte, in cui vivono i grandi padri del crimine organizzato calabrese. Siamo di fronte a una realtà che riesce a coniugare arcaico e postmoderno, sovranità ancestrali e attività legate alla tradizione e alla contemporaneità, come le estorsioni, il movimento terra, gli appalti, il traffico di droga, in particolare di cocaina che ha il suo maggiore mercato di consumo nel capoluogo lombardo. Ma i tentativi di creare una ’ndrangheta settentrionale, autonoma dai patriarcati periferici, sono stati stroncati nel sangue. A dirigere le attività nel Nord Italia, in Canada e in Australia sarebbero Platì, San Luca e altri villaggi preistorici, ma ciò non esclude che si possa parlare di ’ndrangheta a Reggio Emilia e a Buccinasco.
La magistratura spesso si trova impreparata a gestire fenomeni che possono rientrare nelle fattispecie giuridiche solo se si ha un’idea adeguata, capace di distinguere tra mafie storiche, con tutto il corredo delle specificità originarie, e associazione mafiosa così come viene definita dalla legislazione.
Ma questo non è il solo problema della giustizia italiana. Si è voluto mettere all’ombra della Procura nazionale antimafia anche il terrorismo, che con la mafia ha qualche connessione, ma è fenomeno diverso, da affrontare con altri mezzi e altre analisi.
Il problema di fondo della giustizia italiana continua a essere la spropositata durata dei processi che non può non derivare dai tre gradi di giudizio, con gli immancabili ricorsi in appello e in Cassazione. Non si tratta soltanto della prescrizione che vanifica anni di lavoro e delle carenze degli organici. Il problema della eternità dei processi si può risolvere solo in un modo: limitandoli al primo grado, consentendo il ricorso in appello solo in casi limitatissimi, in presenza di fatti nuovi, e limitando ancora di più il ricorso in Cassazione. Sembrerebbe una soluzione di buon senso, su cui tutti dovrebbero essere d’accordo, ma i primi a non esserlo sono i magistrati, con poche eccezioni.
Tra le ultime notizie giunte dal palazzo di giustizia di Palermo c’è la richiesta della procura di archiviare per prescrizione un’inchiesta sul depistaggio per il delitto Impastato, avviata troppo tardivamente, che coinvolge l’ex maggiore Antonio Subranni, i carabinieri Carmelo Canale, Francesco Abramo e Francesco Di Bono, estensori del verbale di perquisizione e sequestro redatto il 9 maggio 1878 nella casa della zia di Peppino Impastato. Alla base delle incriminazioni sono le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo secondo cui l’esattore Nino Salvo gli avrebbe confidato di aver avvicinato Subranni per ottenere l’archiviazione del’inchiesta sull’omicidio di Peppino, in cambio del sostegno per la progressione in carriera. Non so cosa farà il Gip, che a suo tempo aveva giudicato insufficiente il lavoro della procura e rimandato indietro le carte. L’unico risultato che i magistrati avevano ottenuto era l’interrogatorio della casellante Provvidenza Vitale, allora ritenuta irreperibile, perché maldestramente cercata, e finalmente trovata dopo decenni, che però non ricorda nulla di quella notte tra l’8 e il 9 maggio 1978. Francamente non so cosa si possa fare in sede giudiziaria dopo tanto tempo dal delitto.
Le responsabilità del depistaggio sono state chiaramente individuate dalla relazione della Commissione parlamentare antimafia del dicembre 2000. I depistatori furono rappresentanti della magistratura, a cominciare dal procuratore capo Gaetano Martorana che scrisse il fonogramma: “Attentato alla sicurezza dei trasporti da parte di tale Impastato Giuseppe che deponeva un ordigno della cui esplosione rimaneva vittima”, e delle forze dell’ordine che, nel giorno in cui veniva trovato il corpo senza vita di Aldo Moro, trovarono “naturale” scambiare un “estremista” per terrorista, ignorando la sua decennale campagna contro la mafia. Tra un “uomo d’ordine” come Badalamenti e un “sovversivo” come Impastato non c’era scelta. Per fortuna quello che è stato accertato da un organo istituzionale non è soggetto a prescrizione.

Umberto Santino

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